Breve storia della Fitoterapia

 LA FITOTERAPIA NELL’ANTICHITA’

Le civiltà antiche ritenevano le piante un dono degli dei, in quanto erano capaci di offrire nutrimento, ristabilire la salute e migliorare l’aspetto fisico donando sostentamento e benessere. Esse erano utilizzate anche come ornamento e nei rituali religiosi. Il mito di Glauco ci fa capire quanto gli antichi le tenessero in considerazione e quali potenti virtù venissero ad esse attribuite. Questo pescatore dell’antica Grecia un giorno assaggiò per caso un’erba sconosciuta e all’improvviso le spalle gli si svilupparono, le gote si ricoprirono di una barba verde come i riflessi del mare e le gambe si unirono e si trasformarono in una grossa coda di pesce.Da quel momento Glauco divenne una divinità e sviluppò il dono della profezia. 

 

Al di là del mito, la fitoterapia è stata senz'altro la prima forma di medicina utilizzata dall'uomo e non stupisce quindi che da subito le piante cominciarono ad essere osservate, studiate, classificate e che tali esperienze vennero raccolte, non appena fu possibile, in manuali e trattati volti a facilitarne la conoscenza e l’impiego.

Furono in particolare due gli ambiti in cui si sviluppò lo studio del mondo vegetale: quello dell’agricoltura e quello della medicina, all'inizio strettamente connessa con pratiche e credenze popolari. 

 

   LE TRADIZIONI CINESE EDAYURVEDA

La più ricca farmacopea del mondo antico è stata quella cinese. I Cinesi furono i primi a sperimentare la raccolta e la conservazione delle piante per la preparazione dei rimedi. Il primo erbario sarebbe opera dell’imperatore  Shen Nung vissuto addirittura 2700 anni prima di Cristo.

La medicina cinese considerava il corpo un microcosmo composto dai seguenti elementi: legno, fuoco, terra, metallo e acqua. Questi elementi si combinavano insieme grazie all’azione di due principi: lo Yin e lo Yang. Lo Yin era il principio femminile legato al freddo e al buio e lo Yang il principio maschile legato al caldo e alla luce. Uno squilibrio nell’organismo tra questi elementi e principi produceva la malattia nell’uomo, il quale poteva ripristinare la salute grazie all’impiego delle piante medicinali giuste. Tra le piante più utilizzate, tuttora largamente impiegato, c’era il ginsengPanax ginseng, considerato afrodisiaco e ricostituente.

Alle pendici dell’Himalaya, nel subcontinente indiano, si sviluppò intorno al 2500 a. C. un’altra medicina molto antica, l’ayurveda. Anch’essa considera il corpo come un microcosmo costituito dagli elementi fuoco, acqua, terra, aria, etere che interagiscono con delle forze vitali: prana (soffio), agni (spirito), soma (amore). Lo stato di salute è determinato da tre umori vata (respiro), pitta (bile), capha (muco). Lo squilibrio di questi tre umori porta alla patologia e per curarla è necessario diagnosticare quale di questi è eccedente e quale invece carente. La terapia veniva affidata alle erbe e le più usate erano l’aglio, il pepe, lo zenzero, la canapa, e il cardamomo.

Ancora ai Cinesi si deve la “medicina delle segnature” e della “magia simpatetica” che si basava sul principio della similarità, il simile cura il simile: poiché l’uomo fa parte della natura allora bisogna cogliere le analogie esistenti tra il malato, l’organo malato e la pianta che cura. Il fagiolo ad esempio per la sua forma ricorda il rene e quindi può essere impiegato per la cura delle malattie dell’apparato renale; i fiori rossi, ad esempio quelli del melograno, potevano essere usati come emostatici, mentre lo zafferano, per via del suo colore giallo, poteva curare itterizia; l’edera che stringe le altre piante facendole soffocare può essere usata per favorire il dimagrimento, e così via. Questi principi hanno avuto molto successo in Occidente e, passando attraverso il Medio Evo e il Rinascimento, sono rimasti alla base della medicina fino al XVII sec. In seguito alcune coincidenze sono state confermate, ad es. la Stricta polmonaria, che ricorda la conformazione dei polmoni e che quindi veniva usata per le malattie delle vie respiratorie, contiene effettivamente sostanze antibiotiche.

 

LA FITOTERAPIA PRESSO GLI ANTICHI EGIZI

Gli Egizi ritenevano che la malattia fosse dovuta all’antipatia di un dio e quindi per allontanarla si servivano del sacerdote, che aveva il compito di fungere da intermediario presso gli dei. Le erbe medicinali venivano coltivate presso il tempio perché erano parte integrante del rituale propiziatorio e la loro preparazione e somministrazione venivano accompagnate da rituali magici. Per ciascun disturbo o rimedio vi era una specifica formula magica, ve ne erano poi alcune ritenute valide per tutti i medicamenti.

Gran parte delle conoscenze che abbiamo della medicina egizia ci sono arrivate tramite il ritrovamento di papiri, in particolare quello di Ebers 1550 a.C. dove compaiono più di 700 prescrizioni a base di sostanze naturali con relative formule propiziatorie e dove si parla anche di contraccezione e gravidanza.

La pianta medicamentosa più importante nell’antico Egitto fu senz’altro la Nymphaea lotus, il fior di loto sacro a Iside dea della fertilità, che cresceva in prossimità del Nilo durante le inondazioni: era il simbolo dell’illuminazione e della conoscenza perché dal fango si ergeva verso la luce. Il fiore veniva colto ed essiccato al sole, la parte interna veniva pestata e impastata come il pane, venivano mangiate anche le radici che erano abbastanza dolci.

Delle erbe ci si serviva anche per le mummificazioni, i corpi venivano purificati con olio di ginepro per poi essere riempiti con mirra e cassia.

Omero narra che Elena si procurò presso gli Egizi una pianta che offriva sollievo per tutte le sofferenze, anche per la perdita delle persone più care, come il proprio figlio. Si chiamava nepente, le sue foglie venivano essiccate e mescolate con il vino.

 

LA MEDICINA PRESSO I GRECI

I Greci suddividevano le piante in tre categorie: quelle secche e calde, facili da cuocere e commestibili; quelle umide, fredde e selvatiche, come il cappero che non cresceva sui terreni arati; quelle in cui l’umido e il secco erano in equilibrio, tipo i cereali e gli alberi da frutto.

Anche i Greci coltivavano le piante per ricavare nutrimento e medicamenti, sebbene il loro ideale fosse quella di una natura che si autoregolamentava da sola e che assicurava spontaneamente all’uomo il sostentamento. Un esempio di questo ideale è il giardino di Calipso descritto da Omero nell’Odissea: qui la natura si era autodisciplinata e aveva abbellito il giardino di artifici e simmetrie e donava senza coltivazione succulenti frutti. Inoltre la medicina si basava sul concetto che le malattie fossero provocate da demoni e fossero la punizione per aver oltraggiato dei tabù, quindi la guarigione era affidata ad una cerimonia purificatrice di tipo sciamanico.

Le erbe entrarono a pieno diritto nella farmacopea greca grazie all’intensificarsi degli scambi commerciali con altri popoli del Mediterraneo. Secondo la leggenda Asclepio, figlio di Apollo, riconosciuto come inventore della medicina, vide una capretta riprendersi da una malattia dopo aver mangiato erbe che in precedenza scartava. Ad un certo punto anche i filosofi dedicarono attenzione alle piante, ad esempio Pitagora consigliava la scilla per preservare la giovinezza e la salute mentre sconsigliava le fave per la loro forma a sepolcro che, secondo lui, ospitavano le anime dei trapassati.

Ma la vera rivoluzione nella conoscenza e nell’uso delle erbe si deve ad Ippocrate (460-370) che liberò la medicina dalle superstizioni riconducendola a cause naturali. Fu l’autore della teoria dei “quattro umori” secondo la quale nel corpo umano circolano 4 umori (sangue, flemma, bile gialla e bile nera), che determinano 4 qualità (caldo, freddo, secco, umido). Per risanare lo scompenso di questi 4 umori si operava secondo il principio che i contrari curano i contrari, ad esempio ad un ammalato di febbre bisognava somministrare piante rinfrescanti. Questa teoria ebbe grande fortuna nella storia della medicina tanto da giungere alle soglie della era contemporanea.

Ippocrate descrisse 400 rimedi a base di erbe e utilizzava in particolare i diuretici (cipolla, aglio, cetriolo, melograno e zucca) perché riteneva che consentissero l’eliminazione degli umori eccedenti.

Molte altre piante furono introdotte all’epoca delle spedizioni in Oriente di Alessandro Magno, soprattutto spezie (cardamomo, coriandolo, cannella, zafferano, cumino). Nel IV sec. a. C. Teofrasto  scrisse due importanti opere di botanica con le quali tentava una classificazione del mondo vegetale (Storia delle piante e Sulle cause delle piante). A lui si deve la suddivisione dei vegetali in alberi, arbusti ed erbe.

Ma uno dei più importanti trattati di sanità che la civiltà greca abbia prodotto è stato la Materia medica di Dioscoride, nato in Asia Minore ma di cultura greca, che visse a Roma nel I sec. d. C., dove fu medico militare dell’imperatore Nerone. Qui egli elencò ben 650 tipi di piante descrivendone anche la raccolta e l’applicazione terapeutica, dando così vita ad un trattato che sarà un importante punto di riferimento fino a tutto il Rinascimento e oltre.

 

LE PIANTE MEDICINALI PRESSO GLI ETRUSCHI

Degli Etruschi sappiamo poco da fonti dirette ma autori Greci e Latini quali Teofrasto  e Plinio ci riportano che essi erano grandi esperti nella preparazione di farmaci, notizie confermate dalle raffigurazioni che si trovano nelle tombe etrusche dove sono ritratte numerose specie medicinali che gli esperti sono riusciti ad individuare nella quasi totalità.

L’uso delle erbe aveva un ruolo importante anche nella cosmesi femminile, come testimonia Ovidio  in Medicamina faciei dove afferma che nel mondo antico era molto diffuso il semen tuscum, ovvero il seme etrusco, una sorta di farina usata come amido.

 

LA SCIENZA MEDICA NELL’ANTICA ROMA

A Roma durante l’età repubblicana i giardini erano privi di ricercatezze estetiche ma servivano solo per l'approvvigionamento delle piante necessarie per uso quotidiano, soprattutto a scopo alimentare ma anche curativo. I rimedi però furono ripresi dagli Etruschi e da altri popoli italici e soprattutto dai Greci quando cominciarono a giungere a Roma. Quando questi fallivano ci si poteva sempre rivolgere alle divinità primo fra tutti Febo ed in seguito Esculapio (Asclepio) il cui culto fu importato dai Greci.

Attività e ricerca medica trovarono comunque terreno fertile a Roma, testimonianza ne sono le numerose scuole sorte tra il I e il III secolo e l’esistenza di numerosi trattati, tra i quali ricordiamo importantissimi, il De re medica di Aulo Celso e Storia Naturale di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), le cui nozioni di  farmacopea hanno avuto impiego medico negli anni successivi. Queste due opere testimoniano quale impulso avessero avuto le conoscenze dei Romani nel campo fitoterapico in seguito alla conquista della Gallia e dell’Europa del Nord. Nel II sec. d.C. Archagagatos fonda a Roma una farmacia che diviene luogo di ricerca e consultazione medica. Ai Romani si deve la distinzione tra la figura del medico e quella del farmacista che veniva chiamato herbarius in quanto forniva ricette a base di piante e radici.

Si deve soprattutto a Galeno, vissuto nei II sec. d.C. e medico degli imperatori Marco Aurelio e Commodo, la conoscenza di ricette dettagliate per la preparazione dei medicamenti. Galeno riprende la teoria dei quattro umori di Ippocrate e sostiene il principio dei contraria contrariis. Riteneva che le alterazioni dei quattro umori potessero essere individuate dall’aspetto dell’urina e proponeva una specie di panacea che aiutava i malati a guarire e i sani a non ammalarsi. Eccone la ricetta: mescolare in un recipiente di terracotta 1 pugno di grano, 1 d’avena e 1 d’orzo; ricoprire con acqua intiepidita al sole e lasciare macerare dal tramonto all’alba la terza notte di luna nuova; il giorno dopo togliere i semi dall’acqua, metterli in un altro recipiente più grande all’ombra; dopo il settimo giorno cogliere i germogli con le mani e mangiarli di mattino conditi con olio e limone. Secondo la tradizione Galeno, che spesso si nutrì di questa erba degli Dei, visse a lungo rispetto alla media del tempo.

 

LA PRATICA MEDICA NEL MEDIOEVO

Nel 476 crolla l’Impero Romano di Occidente e l’unico centro di cultura che raccoglie i preziosi insegnamenti dei Greci e dei Romani, rimane l’Impero Romano d’Oriente con capitale Bisanzio in seguito Costantinopoli. Qui si potevano confrontare le diverse tradizioni d’Oriente e d’Occidente e ciò favorì la ricerca e lo sviluppo anche in campo medico.

Due sono le opere più importanti: De arte medicinae di Alessandro di Tralle dove viene introdotto l’uso dell’oppio come analgesico e Il trattato sugli Unguenti di Nicola di Myrepso che descrive minuziosamente moltissime ricette tra cui quella del Populeum, considerato un ottimo rimedio per la febbre e il mal di testa.

Ai tempi delle Crociate i contatti con l’Oriente divennero più intensi: Bisanzio rese libero il commercio delle spezie dall’Oriente verso i mercati di Napoli e nel 1082 Venezia ricevette la bolla d’oro che le consentiva di trafficare le spezie che, tramite la città di Costantinopoli, arrivavano dall’Asia.

Sul mercato europeo vennero introdotte nuove sostanze medicamentose che entrarono a far parte delle farmacopee ufficiali, ad es. la Cannabis sativa che lo sceicco Hasan ibn-al-Sabbah somministrava ai suoi guerrieri che venivano chiamati hashshashin, che diventerà per noi assassini

Nella sanità medievale ebbero grande rilievo trattati e medici arabi che ricevevano la legittimazione a curarsi con le erbe anche dal Corano. Il Profeta infatti aveva mostrato loro l’impiego di varie piante medicinali tra le quali la canfora di cui si legge ”Si nutriranno i pii del Paradiso”. Anche dell’aglio si parlava bene dicendo che esso “vale il rimedio di settanta medicine”, del porro, della cipolla, anche se poi era vietato portarli in moschea.

Uno dei medici più importanti della tradizione araba fu Avicenna nato nel 980 d.C., persiano che aveva studiato i testi di Galeno e Aristotele e fu autore di un’opera fondamentale Il Canone che egli stesso ed inseguito le invasioni arabe provvidero a diffondere in Occidente e che fu tradotto nel XII sec. da Gerardo di Cremona.

Ad Avicenna si deve l’importante scoperta della distillazione dell’olio volatile dalle erbe e dai fiori, sperimentata inizialmente sulla rosa e poi applicata ad altre piante.

Un altro importante merito della medicina araba fu quello di aver insegnato l’uso degli anestetici; ad essi infatti si deve l’invenzione della spugna soporifera, vera e propria precorritrice della moderna anestesia. Si trattava di una spugna imbevuta di oppio, giusquiamo e cicuta che veniva applicata sul naso del paziente.

La grande disponibilità di canna da zucchero e alcool permise agli arabi di preparare una grande quantità di sciroppi, elisir, giulebbi. Alla farmacopea araba l’Occidente attinse per tutta l’età medievale.

 

LA SCUOLA MEDICA SALERNITANA

La Scuola medica salernitana accentrò tutte le conoscenze dell’alto e del basso Medioevo.

La leggenda vuole che la sua nascita fosse dovuta all’incontro casuale, sotto gli archi dell'antico acquedotto Arce, di quattro personaggi (un greco, un romano, un ebreo e un musulmano) che si ritrovarono a raffrontarsi sulle loro diverse conoscenze mediche. La Scuola, infatti, si fondava sul confronto delle diverse esperienze culturali e su una concezione laica ed empirica della medicina.

Grazie alla Scuola Medica Salernitana lo studio della medicina ebbe un forte impulso. Il testo base era Regimen Sanitatis Salerni, un opuscolo scritto in versi leonini, un linguaggio rozzo e approssimativo. La Scuola e i suoi medici godettero di grande fama in tutta Europa e, fatto singolarissimo ed eccezionale per l'epoca, dall’XI al XII sec. le donne medico ebbero la stessa importanza degli uomini. Tra tutte si distinse Trotula, autrice del trattato Sulle malattie delle donne e forse moglie di Giovanni Plateario il Vecchio, il primo di una stirpe di famosi medici salernitani.

Purtroppo quando nacquero le Università Medievali strettamente legate alla Chiesa tutto questo cessò e con il XIII sec. comincia anche la decadenza della Scuola che comunque restò aperta fino al 1811, quando venne soppressa da Gioacchino Murat.

 

GLI ORTI BENEDETTINI

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente l’Europa si frantumò in vari reami con conseguente instabilità politica. In questo periodo solo la Chiesa fungeva da collante e ad essa dobbiamo la sopravvivenza e il recupero della tradizione antica.

Nel 540 San Benedetto fondò a Montecassino l’ordine dei Benedettini. Egli riteneva che la coltivazione delle piante fosse uno dei doveri dei monaci. In quasi tutti i monasteri, specialmente quelli più grandi, si distinsero vari tipi di giardini. Il primo riservato allo svago e alla meditazione dei religiosi era detto umbraculum ed era coltivato soprattutto con piante rampicanti e viti, offrendo riparo nelle giornate estive; il secondo era chiamato pomarium ed era destinato alla coltivazione di alberi da frutto di varie specie; il terzo era l’hortus holerorum, dove c’erano le piante destinate alla cucina del monastero e l’hortus sanitatis, riservato alla coltivazione delle erbe officinali.

Nei monasteri si istituirono gli Spedali per la cura delle numerose epidemie e vennero istituite delle figure specifiche: il monacus infirmarius e il monacus medicus, che dirigevano l’infermeria e la farmacia del monastero ed erano preposti alla coltivazione delle erbe, alla selezione delle sementi e ai rapporti con gli altri conventi per la sperimentazione di nuove piante.    

Attingendo proprio al sapere dei Benedettini Carlo Magno emanò il Capitulare de villis, un ordine imperiale in cui venivano elencati 70 tipi di piante medicinali e venti alberi da frutto, con lo scopo di canonizzare e divulgare al di fuori delle ristrette mura dei conventi le conoscenze sulle tecniche di coltivazione.

Nel XII secolo fu impedita ai monaci la pratica della medicina; molti lasciarono i conventi e si dedicarono alla preparazione dei farmaci e all'attività medica: fu il primo passo verso la laicizzazione della medicina e della farmacia. Nel Medioevo anche nelle case private venivano coltivate le piante officinali, solitamente 7 annuali e 7 perenni, che venivano raccolte ed essiccate in una giornata di sole su una tovaglia di lino e poi conservate in recipienti di vetro o di terracotta. Ogni anno venivano bruciate e le ceneri sparse in giardino.

 

GLI ORTI DEI SEMPLICI

Nel 1453 la città di Costantinopoli cadde nelle mani dei musulmani guidati da Maometto II. Allora molti letterati ed intellettuali bizantini riportarono in Occidente la cultura greca e romana e il culto dell’antichità. Un momento decisivo per lo studio delle piante officinali fu il XVI sec. quando le Università si dotarono di veri e propri giardini destinati alla coltivazione delle piante medicinali perché si riteneva indispensabile per la formazione del medico lo studio della botanica. Nacquero così  gli orti dei semplici, dal termine latino simplicia, cioè “rimedi semplici”, perché i medicamenti ottenuti dalle piante non subivano ulteriori modifiche. Tra questi orti botanici ricordiamo quello di Pisa, Padova e poi Firenze. A questi orti si deve anche, negli anni successivi, l’introduzione e l’acclimatazione di piante provenienti da paesi con climi molto diversi dal nostro. Una pianta molto apprezzata fu il rabarbaro (Rheum palmatum), assai ricercata dagli speziali e medici per le sue proprietà purgative.

 

LA MEDICINA NEL RINASCIMENTO

Il medico e alchimista svizzero Theophrastus Bombastus von Hohenheim (1493-1541), detto Paracelso perché pensava di perfezionare l’opera del medico romano Celso, contestò aspramente le teorie di Galeno e degli arabi tanto da bruciare pubblicamente i loro scritti. Lui fu il primo a considerare la malattia come il riflesso di un mancato ordine chimico; a suo avviso ci si ammalava per uno squilibrio delle tre sostane fondamentali: il mercurio, il sale e lo zolfo, i cui eccessi provocavano determinate malattie.

Nella sua teoria la pianta da sola non era in grado di assicurare la guarigione ma richiedeva un processo di distillazione volto ad estrarne l’essenza che conteneva il principio attivo. Per la cura delle malattie teneva conto di corrispondenze tra organi malati, astri, piante e minerali e attraverso preparazioni segrete estraeva le quintessenze o gli arcani; grande importanza dava all’elleboro nero.

Nel corso del Rinascimento si riprese la teoria delle signature risalente a Plinio e a Dioscoride secondo la quale il simile cura il simile (similia similibus), in quanto tutto quello che si poteva osservare nell’uomo microcosmo lo si poteva ravvisare anche nel macrocosmo; quindi doveva esservi un legame tra l’aspetto di una pianta, il suo potere medicamentoso, l’organo malato e il pianeta a cui era legato l’organo. La terapia consisteva nel somministrare rimedi pregni dell’influenza del pianeta debole, così da supplire alla sua azione.

Le conquiste scientifiche nel XIX sec. portarono ad una netta distinzione tra conoscenze razionali e credenze popolari. Queste ultime comunque hanno continuato ad esistere accanto alla scienza ufficiale e ultimamente sono state rivalutate insieme ai rituali simbolici associate alla somministrazione delle sostanze vegetali.

 

CARLO LINNEO E LA BOTANICA STISTEMATICA

Le migrazioni e le scoperte scientifiche accentuarono le esigenze di sistematicità e di organizzazione del sapere nel campo della botanica, anche perché molte nuove specie vegetali erano state introdotte dal Nuovo Mondo e da altre terre. La cultura illuministica spingeva per una razionalizzazione del sapere e al suo interno Carlo Linneo elaborò un sistema di classificazione delle specie viventi che, nella sua struttura portante, è ancora utilizzato ai nostri giorni.

Carlo Linneo (1707-1778) fu professore di medicina e poi di botanica presso l’Università di Uppsala in Svezia.  Le sue opere più importanti sono Sistema Naturae in 7 volumi e Specie Plantarum, nelle quali ha elaborato una classificazione delle specie vegetali partendo dall’analisi dei fiori. La nomenclatura binomia da lui ideata è una nomenclatura universale che permette l’identificazione esatta della specie senza il pericolo di fraintendimenti. Ciò ha favorito un impulso delle scienze permettendo lo scambio e la collaborazione tra le Università e gli scienziati di tutto il mondo. 

 

L’OMEOPATIA 

Verso il 1790 Christian Samuel Hahnemann condusse degli esperimenti sulla belladonna, l’ipecacuana, l’aconito e la china e le somministrò a malati che presentavano gli stessi sintomi che queste piante inducevano se introdotte in un corpo sano. Ne dedusse che ogni sostanza può curare sintomi analoghi a quelli che può provocare e illustrò questa teoria nel Saggio su un nuovo principio per scoprire le virtù curative delle sostanze medicinali.

Per la somministrazione dei rimedi bisognava tener conto, secondo Hahnemann, anche delle caratteristiche del malato. Ad esempio Pulsatilla è indicata per bambini o tipi biondi, femminei, timidi con mal di testa e disturbi del sonno; Nux vomica per tipi mascolini e autoritari che mangiano molto e fanno poco esercizio fisico, irritabili e che presentano difficoltà digestive e infiammazioni alle vie urinarie o al sistema rinofaringeo; Ignatia risulta efficace in soggetti femminili e sensibili alle contrarietà con tachicardie, emicranie e disturbi allo stomaco.

Hahnemannsi si rese conto che dosi sempre minori del farmaco producevano effetti migliori e quindi cominciò a preparare i rimedi in dosi infinitesimali passando per continue diluizioni, il resto è storia dei nostri giorni.

 

LA FLORITERAPIA

Verso la fine del 1900 il Dott. Edward Bach (1866-1916)  ideò la floriterapia.

Studiò non solo la malattia ma anche la personalità e la psiche delle persone, ipotizzando che potessero esistere delle corrispondenze nel mondo vegetale. Individuò 38 fiori (corrispondenti a trentotto personalità o stati d’animo) i quali, una volta somministrati, erano in grado di ristabilire l’equilibrio psico-fisico perduto. Al giorno d'oggi è sempre maggiore il numero delle persone che trovano giovamento nei Fiori di Bach tanto che essi sono stati riconosciuti dall’OMS (Organismo Mondiale della Sanità).

 

LA MEDICINA DI SINTESI: STORIA DELL’ASPIRINA

Con l'avanzare del progresso scientifico la medicina subì profondi cambiamenti e cominciò a svincolarsi dalla fitoterapia, sia pur partendo sempre da essa per moderne rivisitazioni. Vi raccontiamo adesso la storia di uno dei più famosi farmaci al mondo.

Nel 1806 Napoleone aveva imposto il blocco continentale contro l’Inghilterra, cosa che dal punto di vista sanitario creò alcune emergenze, ad esempio non era più possibile importare dal Perù il chinino, utilizzato come antipiretico. I chimici rispolverarono alcune pratiche antiche tra cui l’estratto di corteccia di salice. Già Ippocrate intorno al 400 la consigliava e anche i monaci medievali con essa preparavano un decotto nero e amarissimo. Quando però i feudatari avevano vietato l’utilizzo del salice per promuovere l’uso dei rami per la realizzazione dei cesti, la tradizione millenaria era caduta in disuso.

Adesso veniva rispolverata e le ricerche su di essa continuarono fino a quando nel 1838 un italiano il chimico Raffaele Piria, estrasse l’acido salicilico dalla corteccia di salice e lo identifico.

Verso la metà dell’Ottocento, un chimico francese Charles Frederic Gerhardt, iniziò ad estrarre questo acido a livello industriale, ma il gusto era sgradevolissimo e gli effetti molto aggressivi sulla mucosa gastrica.

Verso la fine dell’Ottocento il tedesco Felix Hoffmann riuscì ad ottenere un prodotto purificato, stabile e ben tollerato  dall’organismo. Lavorava per la Bayer e stava cercando un farmaco per curare i reumatismi del padre.

Il nuovo farmaco fu sottoposto a diversi studi clinici, sperimentato negli ospedali e i risultati furono positivi. Fu depositato il brevetto con il nome di aspirina: a indica l’iniziale del gruppo acetile, spir indica il genere di piante da cui viene estratto l’acido salicilico, la Spirea, e ina è il suffisso con cui a quei tempi venivano indicati i farmaci.

 

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